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019 SLOVENIA. IL LATO OSCURO DELL'AMORE


di CUMCONTROL
13.01.2021    |    5.662    |    1 7.2
"Lo so, non è bello aprire un racconto con una scena così..."
Aveva preso il fascio di fiori e li aveva sbattuti sul cofano.
Poi fui sbattuto io su quei fiori.
E poi fu sbattuto pure il culo.

Lo so, non è bello aprire un racconto con una scena così.
Non va bene iniziare così, senza che vi sia un preludio, senza quel sapiente surriscaldamento scalare che ogni buon autore ha il dovere di mettere in atto.
Nella stesura di un buon racconto ci vuole maestria, ma dovete credermi che così fu per me. Chiavarmi al parcheggio di una improbabile statale fu un gesto inaspettato, brutale, soverchiante e doloroso.
Non mi preparai a quella circostanza. In una manciata di minuti giacevo come carne morta, distrutta nelle polpe, con il petto pressato su di un giaciglio di fiori sparsi.
Così io stavo, riverso su di un cofano ancora caldo, e con la tuta abbassata, le mutande strappate ed il culo già così malconcio sapientemente tritato dal batticarne del mio uomo già dalla notte prima.
Stavamo insieme da soli due giorni.
Avevo un bell’urlare io.
Per tutta la notte mi aveva seviziato in albergo, fino all’alba.
E lui, mai stanco dopo essere venuto a sborra per ben tre volte, volle riprendersi quel culo, fino a strapparmi l' anima dalle mie stesse viscere.

Già, la mia fessurina, ma quanto lo mandava in botta la mia fessurina, ridotta ad un ammasso rivolto di carne scossa, eppure ancora mai sazio quel mio uomo, che pretese a sé di nuovo il mio corpo sul ciglio di quella piazzola.
Ecco perché urlavo. Urlavo per timore e per quel suo brutale fare l'amore.
Si dice che l’amore porti con sé sempre un proposito di violenza.
Certo, è vero, mi aveva regalato un gigantesco mazzo di fiori come compenso per tanto sollazzo della notte prima, che io quasi ne provai imbarazzo.
Forse il dono poteva dirsi improprio da parte di un maschio, verso un altro maschio, ma quel mazzo di fiori lo intesi come gesto forse maldestro da parte di un uomo dalla cultura così distante dalla mia, ma a cui forse andava concesso il condono di un atto senza dolo.
Il mio uomo era di un altro mondo, era russo, e si chiamava Koba.


E ora quello stesso mazzo di fiori di diversa varietà macerava sotto di me, nel rinnovarsi di una già recente distruzione del corpo, compresso sulla lamiera, tra petali disfatti e confitto a sangue dalla minchia del mio bestione.
Il mio fidanzato era un vero massiccio, maschio, incurante di me quando era eccitato, e lo era a tal punto che non mi graziò nemmeno di una pausa quando sentii grondare dal culo l’esile rivolo di sangue e non valsero le mie grida, il mio inutile divincolarmi, a sottrarmi da quell’accanimento, nonostante in fondo...
In fondo era quel che mi piaceva.
Noi due eravamo troppo lontani dal mondo civile, immersi a fottere, lui maschio io femmina, nelle brume di una piazzola di sosta sui colli sloveni.

Era bello e violento, forse troppo violento perché a mano a mano io sentii affievolirsi questa grande bellezza, mentre pungente e lancinante si faceva strada dentro di me quello svangapassere d’eccezione.
Era forse drogato? Si dice che la droga possa far perdere il controllo sull’esercizio consensuale della violenza negli atti impuri.
Il suo era per me amore o occasione di sfogare esperienze pregresse, violenze a sua volta subite?

Quella sera sulla piazzola, sbattuto sul cofano io non ebbi granché fortuna nel riflettere con riguardo e darmi così una risposta certa, poiché soverchiato da lui che mi incendiava l’ano nella più totale indifferenza al mio urlare.
Lui mi teneva i polsi e se sollevavo la testa me la percuoteva a suon di pugni, e ciò che accadde da lì a poco diede la misura dell’abominio cui mi ci ero ficcato amando il mio Koba.

Dalla corsia opposta della strada fermò una vecchia auto, ed uscì un uomo sulla quarantina.
L’uomo, che io intravvidi tra le ciglia, era alto, magro, ma dotato di cosce vigorose ed un viso dalla larga mascella. Aveva barba incolta ed un grosso cappello di lana.
Stava calando il sole e le sterpi effondevano l’umido dalla terra, e il nostro respirare si faceva vaporoso in un freddo improvviso nella piena campagna slovena.
Quell’uomo di là dalla strada, compì un semi giro attorno al mezzo, e portatosi sul ciglio opposto, sostò maneggiandosi sul davanti.

E così ne intravvidi le natiche nel fascio di una divisa agricola assai infangata. Vidi l’uomo di schiena.
Vidi le cosce spalancarsi e vidi i vapori bollenti del piscio irrorare sulla morte del mondo vegetale.
Il mio uomo che mi stava alle spalle, stava fottendomi con foga inaudita, ma d’un tratto mi tirò i capelli, reclinandomi in su, quasi che io non vedessi più quell’uomo, forse per motto di gelosia chi lo sa.
Sta di fatto, che inarcata la schiena il mio Koba infierì con brutalità sinistra che io quasi per la prima volta ne provai timore. Mai tanto strazio mi fu reso insopportabile.

Avevo il cuore che mi batteva forte. Dubitai di aver trovato l’amore, e dubitai di me stesso già che m’ero fidato del mio Koba senza titubare che forse come prezzo dell’amore potesse rendersi in contropartita il discredito di un violento.
Ero giovane e inesperto, questo non lo dimentichi mai il mio erudito lettore.

In quell’imbrunire fui pervaso dal puro terrore. Come per reazione dell’istinto allora urlai aiuto, ma di là della strada non scorsi più l’uomo pisciare, poiché io fui tenuto con forza a guardare i rami secchi degli alberi tirato per i capelli.
Quanto avevo desiderato essere fottuto fino all’esasperazione delle mie stesse viscere, ma quando in risposta a tanta brama la sorte mi consegnò i favori della esperienza vera, io mi ritrassi spaventato, e mi agitai e invocai che quello strazio potesse finire presto, fino a spingermi nel dubitare dell’amore di Koba.
Udii il passo esitante di scarponi pesanti che avanzavano sullo spiano di ciottoli, poi intravvidi la sagoma scura. Mi sentii scrutare e poi avvertii il calore di una mano nei pressi del mio entrocoscia gelato.
Poi quella mano accarezzò la mia carne e il dorso peloso di quella mano sfiorò il sobbalzare dei miei testicoli senza tuttavia maneggiarli.
Ecco che mormorò qualcosa. Parlava al mio Koba in lingua italiana.

- Siete della zona?
- No.
- Posso toccarlo?
- Si.

Così la mano dell’uomo tondeggiò sul mio gluteo gelato ed egli aggiunse.

- Sono di Gorizia, ma vivo a Lubiana da dieci anni. Mi chiamo Matteo.
- Io Koba. Vuoi scoparlo.
- Si.

Era buio pesto ormai e così nel cambio di marcia io giovai di una pace momentanea, già che Koba estrasse il suo batticarne ed io mi risollevai tirandomi su le brache e pregai piagnucolando di finire lì la cosa.
Koba afferrò l’estremità della mia blusa e si ripulì il cazzo.
L’uomo invece, vedendomi in volto nonostante l’oscurità fitta di quell’autunno ebbe come un motto di pietà sentita nel vedermi lacrimare e tossire, e trasse dalla bisaccia un panno che sapeva di nafta.
Ripulì gli occhi ed il naso che mi colava. Io tremavo e non osavo proferir parola poiché nel mio cuore coabitavano il sentimento della angoscia e della incosciente avventura.
L’uomo mi afferro il polso e volle che lo seguissi tra le frasche, allontanandoci così dal ciglio della strada dove qualche improbabile viandante avrebbe potuto vederci.
Koba ci segui.
Di tanto in tanto io mi voltavo a guardarlo e nonostante io fossi diretto chi sa dove per mano dell’uomo, io quasi mi fidavo di lui più che del mio stesso fidanzato.
Oltre le frasche il terreno scendeva ripido e svoltando a destra vi era un sentiero che rivoltava a gomito per poi passare sotto la strada.
In quel luogo v’era un silenzio tombale e un puzzo pietoso di percolato di stalla.
Koba ci raggiunse. Fu in quel luogo che l’uomo estrasse la verga e per mia fortuna mi risparmiò la sodomia.

Tratta la verga fui calato al suo cospetto mentre Koba maneggiava la sua cintura per estrarre la sua di verga.
Della verga dell’uomo non potrei fare descrizione accurata poiché l’oscurità fitta del luogo me ne impediva la chiara percezione. L’odore che annusai poco prima di imboccarmi poteva dirsi meno osceno dei cazzi un tempo succhiati, poiché al profumo di minchia si associavano lievi effluvi di origine campestre.
Fiutai sulla cappella recondite tracce di urina, forse di fica, commisto ad un flebile afrore di stabbio. Dio non voglia che abbia inculato una giumenta, pensai.
Ammetto che imboccata la verga si propagò un salmastro quanto mai sugoso dal sapore di cazzo, e malgrado avessi fatto il pieno di minchia con Koba, vuoi per il luogo, vuoi per il senso di avventura, vuoi lo sconosciuto, ripresi a succhiare e a pompare con letizia.

- Succhia bene vero?
- Da favola
- Alla troia piace il cazzo
- E si vede
- Fagli vedere cosa sai fare CUM, tu sei nato per questo, devi farli godere tutti

Io succhiavo in ginocchio aiutandomi con le mani ma l’uomo non volle il concorso delle mie dita poiché il lavoro andava fatto per bene con la sola gola e la sola lingua.
Sentii strofinare la verga del mio Koba sulle mie guance.

- Prendi anche il mio
- Si amore, si
- Di che sa, eh?
- Amore sa di te, amore
- Che c’è hai paura?
- Un po’ amore
- E fai bene.
- Si amore si
- Di che sa il mio cazzo eh?
- Di amore, amore mio
- Sa di culo invece
- Si amore anche di culo
- Bravo, come ti piace il cazzo, eh? Succhia brava, succhia, succhiami e poi passa all’amico

Passai di cazzo in cazzo, di palle in palle con impazienza, non già che la cosa non mi seccasse, tutt’altro, ma perseguii questa tattica per farli sborrare in fretta, così da non balenare l’idea di spaccare ancora il culo. Non avrei retto.
Nel mentre tentai una perlustrazione del mio buco del culo, toccandomi con le dita che però ritrassi all'istante quando lambii quel mio ano già prolassato, imbruttito dallo sfascio della notte prima e dalla chiavata violenta sopra il cofano della macchina.
Ma torniamo alla sbocchinata multipla.

Lo sconosciuto volle allontanarmi dalla minchia di Koba. Affondò le mani sotto le mie ascelle, mi tirò su, e mi girò contro il muro di cemento armato.
Koba calò le mie braghe, aprendomi le natiche per offrire il mio buco all’uomo.
Fu quella la mia prima ed unica volta in cui supplicai di non essere scopato. La minchia dell’uomo fece pressione sull’anulare distrutto ma vuoi per timore, vuoi per una difesa incondizionata dei miei sfinteri, il buco del culo si strinse contro la volontà dei due.
Lo sconosciuto, non senza l’aiuto di Koba, forzava l’ingresso ed io schiacciato contro il muro pensai che volevo tornare da mia madre, tornare a Roma. Cosa ci facevo io in Slovenia, quali assurdi propositi mi ero ficcato in mente sperando nell’amore quando io restavo lì nel puzzo di piscio e di stabbio.

Urlai, supplicai di non farlo e la pressione fu tale che io tentai in ogni modo di divincolarmi.
Imbarazzato forse dalla figura di merda che stava facendo con “l’amico”, Koba mi prese a sputare sul buco, ma la minchia per quanto ben turgida e filante, non guadagnò un solo centimetro della mia viscera.
Ecco che l’uomo ebbe pietà di me. Posò la sua mano sulla mia testa e mi calò nuovamente a portata di cazzo. Fu lì che mi pompò la gola a pie mani, e senza che quasi me ne accorsi, deflagrò il metallico sapore salino dei suoi spermi, proprio mentre i due si stavano baciando con molto ardore.

Ultimata la secrezione, lo sconosciuto estrasse la minchia, scrollandosi sul mio labbro, ma non ebbi modo di sputarne lo schifo, perchè Koba pensò bene di ingozzarmi a sua volta, godendo a pieno titolo della mia bocca calda e della spermatica viscosità profusa dall’individuo.
Mi fotteva la faccia con fare molto sgarbato che quasi ci rimasi male, non tanto perché afferrandomi le tempie e menando di reni egli mi sbatteva pesantemente la nuca sul muro, quanto piuttosto nel vedere lui, il mio uomo, voltato verso l’amico, e vedersi baciare, così, ardentemente, che nella poca luce brillavano solo le loro lingue salmastre.
Fu in quella circostanza che Koba rilasciò i suoi spermi sul caldo letto della mia dolce lingua.
Poi mi afferrò il colletto della blusa e si ripulì il cazzo.
Diede ancora un bacio al tipo, mentre io sputai tra le mie ginocchia, e fui pisciato sulla testa da entrambi nel mezzo del loro bacio.
Infine si salutarono in un sommesso “ciao” e lo sconosciuto risalì per il sentiero.
Koba mi sorrise, ebbe finalmente cura di accarezzarmi e mi aiutò a sollevarmi tornando improvvisamente umano.

E insieme, noi due risalimmo la china.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.

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